Un luogo dove la sostenibilità incontra il design e la storia
Questa volta non si tratta del Giappone o di qualche altro paese orientale dove sono famosi per la loro attitudine a trasformare le cose bizzarre in qualcosa di divertente come è successo con il Tokyo Poop Museum o il Poop Cafe in Corea del Sud, per esempio. Questa volta però stiamo parlando dell’Italia, e nello specifico di un paesino vicino a Piacenza (Emilia-Romagna), chiamato Castelbosco, dove un contadino con la passione per l’arte ha convertito un castello del XIV secolo in un museo chiamato “Museo della merda”.
Il contadino è Gianantonio Locatelli che ha aperto il museo nel 2015 insieme all’architetto Luca Cipelletti che ha restaurato il piano terra della struttura medievale in 9 sale tematiche con installazioni di vari artisti tra cui Carlo Valsecchi, Daniel Spoerri e Claudio Costa.
La sua fattoria produce 50 tonnellate di latte per la produzione di Grana Padano, ma le mucche producono altrettanto letame. Così, ha concepito un progetto sostenibile per lo smaltimento del letame trasformandolo in biocarburante che può generare 3 MW all’ora.
Tuttavia, la sostenibilità non è tutto. Anche il design e l’arte sono protagonisti del museo, dato che Locatelli è un amante di quest’ultima. Egli ha quindi scelto artisti degli anni ’70 per interpretare il progetto del museo, tra cui David Tremlett, famoso per le sue composizioni geometriche e colorate, ma non si può dimenticare l’opera di Roberto Coda Zabetta chiamata Sistema Extrasolare, un polittico in 8 opere, ognuna delle quali rappresenta la percentuale di metano rilasciato da ogni pianeta del sistema solare. Quadri astratti nella forma e materici nella sostanza; composti da una grande varietà cromatica a base di letame liquido.
Natura, arte e tecnologia si fondono perfettamente. Ogni stanza mostra quante cose si possono fare con lo sterco.
Inoltre, Locatelli ha brevettato la “merdacotta”, un tipo di argilla creata riscaldando lo sterco a più di 1.000 °C. Nella prima sala infatti, si possono vedere tavoli, sedie e vasi fatti con questo materiale.
C’è anche un po’ di storia, specialmente nella stanza adornata con giganteschi vasi pieni di “digestori” prodotti a Castelbosco. Su ogni vaso c’è un’etichetta scritta in latino, tratte da un’opera enciclopedica chiamata Naturalis Historia scritta da Plinio Il Vecchio in cui descrive, tra l’altro, alcune ricette e decotti utilizzando lo sterco.
Anticamente, lo sterco veniva usato come materiale da costruzione perché era facilmente accessibile e malleabile. E alcune pareti del museo hanno proprio sterco usato come intonaco per dare un aspetto rustico e coerente con il tema. Inoltre, al centro di una stanza, c’è la riproduzione di una capanna, con pareti fatte di mattoni di paglia e sterco secco e un tetto fatto di fascine.
Nella stessa sala si trovano due opere di Claudio Costa che analizzano diverse tribù e i loro strumenti di lavoro.
La sostenibilità incontra anche la luce in una sala speciale dove si può ammirare un fenomeno sorprendente di batteri geneticamente modificati alimentati con gas metano che generano flussi di luce soffusa tramite un processo di bioluminescenza. Questo approccio si basa sul principio della trasformazione della materia in cui la produzione di gas metano è fornita dalla conversione ecologica dei rifiuti domestici umidi.
Un’altra sala è dedicata allo scarabeo stercorario che è anche il logo del museo. Questo insetto era molto importante per la civiltà egizia perché legato alla rinascita e all’immortalità del Sole. In natura, lo scarabeo stercorario è altrettanto importante perché pulisce la superficie dello sterco dallo sviluppo di parassiti, e scavando, aumenta la porosità del suolo favorendo l’infiltrazione dell’acqua.
C’è anche una sala con 22 foto scattate da Luigi Ghirri che fanno parte del progetto Alfabeto di Claudio Parmiggiani: tutte le immagini sono state prese dalla collezione di Lazzaro Spallanzani (naturalista e biologo del XVIII secolo) conservata ai Musei Civici di Reggio Emilia, una sorta di “museo nel museo” e un omaggio al fondatore della biologia sperimentale.
Il museo ha anche un negozio denominato “shit shop” dove si possono comprare tazze, vasi, fertilizzanti, ecc. In ogni caso, potete visitare il sito web per ulteriori informazioni.