La guerra dei “mi piace”

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la guerra dei mi piace

Come i social hanno dato il via a nuove forme di comunicazione

Da quando abbiamo iniziato ad usare i cellulari, l’esigenza di far fronte ai costi di ricarica, aveva spinto soprattutto i più giovani a trovare un modo di risparmiare. L’arrivo del cellulare è stata sicuramente una rivoluzione sia a livello tecnologico, ma soprattutto comunicativo: permettendo un contatto più diretto (per la possibilità di chiamare direttamente l’interessato/a) e a volte anche con meno imbarazzo (tramite la scrittura via SMS), ma ha anche spinto a trovare un nuovo modo di comunicare laddove bisognava fare i conti coi costi di SMS e chiamate, poiché i soldi disponibili erano limitati alla paghetta settimanale.

Nacquero così gli squilli: un modo per comunicare diversi messaggi a seconda delle situazioni: dal “ti penso”, al “chiamami”, fino all’ancora attuale “squilla quando sei sotto casa mia”. Anche gli SMS però subirono tali effetti. Infatti l’allora numero limitato di caratteri ha spinto verso l’utilizzo di abbreviazioni che tutt’oggi ricordiamo e ci trasciniamo ancora in determinati contesti: le “k” al posto del “ch”, le “x” per “per”, così come il simbolo “+” per “più”, ecc… E nei casi più estremi, c’era pure chi scriveva il messaggio senza spazi per sfruttare al massimo il numero di caratteri consentito.

Col passare del tempo però le cose sono radicalmente cambiate: con l’arrivo degli smartphone, della comunicazione via chat, come quella delle app di messaggistica e con una preoccupazione sempre minore dei costi (grazie all’ADSL, il Wi-Fi, e alle promozioni telefoniche non più a consumo), la libertà di esprimerci e comunicare è diventata esponenziale. Così come con i social, di cui Facebook è stata il capostipite.

Con il tasto “mi piace” di Facebook è successa però una cosa diversa: per la prima volta abbiamo potuto comunicare senza comunicare. In che senso? Direte voi. Mettere “mi piace” a qualcosa crea uno stimolo positivo verso chi lo riceve, ma non obbliga a fare nient’altro. Premendo quella reazione diciamo che apprezziamo qualcosa, ma non siamo vincolati né a cominciare una conversazione, né a fare nient’altro. In un certo senso, siamo deresponsabilizzati da entrambe le parti: è come lanciare il sasso e nascondere la mano, ma in senso positivo. Se in una conversazione classica, già il fatto di cominciarla porta con sé tutta una serie di obblighi: non possiamo ad esempio telefonare a qualcuno solo per dire: “apprezzo questa cosa che hai detto\fatto” e poi mettere giù il telefono, poiché ci sono delle regole comunicative da rispettare. Col “mi piace” diamo come un’occhiolino e poi giriamo l’angolo senza sentirci in obbligo di dimostrare niente di più, e dall’altra parte non ci si aspetta, allo stesso modo, nulla di più. Se poi uno volesse aggiungere un commento va bene, ma non ci si sente obbligati a farlo. Quindi questa modalità di comunicazione ristretta all’osso permette di dire probabilmente ciò che pensiamo davvero, proprio perché non c’è obbligo e non ci sono costi a livello comunicativo. Possiamo quindi essere portati a pensare che il “mi piace” sia più sincero di un vero e proprio “mi piaci” (inteso come apprezzamento esplicito).

Ci si potrebbe scervellare ore per cercare di capire cosa l’altro voglia dire con un sistema così astratto, quasi inconscio, tuttavia non si può fare a meno di pensare che, come quando siamo invitati ad una festa di compleanno, ci sentiamo in dovere ad fare il regalo, in questo caso non c’è alcun tipo di obbligo sociale.

Se questo è vero, allora anche non metterlo il “mi piace” assume un valore. Ma poiché non vi sono precedenti, ossia non sappiamo se il “mi piace” ce l’avrebbero messo in quella determinata situazione, diventa ancora più difficile da interpretare, anche se in alcuni casi è possibile dedurlo.

Quando conobbi dei nuovi amici tramite alcune conoscenze comuni, iniziai ad uscirci, e da lì a poco cominciai a notare dove mettevano “mi piace” e dove no ai miei post e/o foto. Mi nacque quindi la curiosità e la domanda: “perché la gente mette ‘mi piace’ a qualcosa e perché altre volte non lo mette?”. Banalmente si potrebbe rispondere con: “mette ‘mi piace’ alle cose che realmente apprezza e non lo mette a ciò che non gli interessa o non gli piace”. Ovviamente dire che qualcosa ti piace è più facile che dire che qualcosa non ti piace, soprattutto sulle cose che riguardano tuoi amici, poiché non si vuole rischiare di offendere. Non mettere nulla però non rappresenta un “non mi piace dichiarato”: magari un post può sfuggire o non si vuole essere assillanti nel mettere troppe reazioni, ecc… Tuttavia quando sai che ad una certa tipologia di post e/o foto qualcuno mette o non mette solitamente una determinata reazione, quando quel comportamento cambia, siamo portati a pensare che anche qualcosa nei nostri confronti è cambiato.

Con quegli amici con cui iniziai ad uscire assieme successe uguale: c’era chi mi metteva “mi piace” a determinati post o foto, chi lo faceva con quasi tutti e chi non lo faceva praticamente mai.

Quando smisimo di frequentarci, improvvisamente i “mi piace” sparirono tutti: sia da parte di chi me ne mettava di più, sia da parte di chi ne metteva pochi. Ovviamente nulla cambiò per chi non me li aveva mai messi.

Da lì interpretai come fosse semplice manifestare dissenso, menefreghismo e indifferenza, semplicemente smettendo di avere una reazione. Il “mi piace” non messo sembrava ormai voler dire “adesso non me ne frega niente di te”, una strana ripicca dove piuttosto che parlarsi è diventato più semplice dirlo senza dirlo. Ma allo stesso tempo, c’era chi coerentemente non gliene fregava niente e ha continuato sulla stessa linea, mentre altri probabilmente hanno finto interesse fintanto che tutto andava bene.

Questo tipo di comunicazione è come una guerra invisibile, dove nulla è dimostrabile, ma vi è comunque un messaggio che viene lanciato. Più cose vengono lasciate all’interpretazione e meno vengono chiarite, più si manifestano le incomprensioni, gli attriti, che nel tempo si accumulano. Vi erano probabilmente motivazioni precedenti al comportamento conseguente in cui i “mi piace” sono passati da un tot fino a scomparire nel tutto. Ciononostante non tutto è sempre facilmente intuibile e confermabile al 100%.

A parte i “mi piace”, vi sono anche altri comportamenti che possono dare un segnale comunicativo, anche se un po’ più espliciti, come: l’ignorare il compleanno, mettere l’amico in una lista ristretta; fino al togliere l’amicizia o addirittura bloccare definitivamente la persona.

Fare gli auguri di compleanno sono spesso una scusa per riallacciare dei rapporti, ma al contempo un modo per vedere quanto siamo in contatto con le altre persone. Se chi ci fa da sempre gli auguri, un giorno smette di farlo, è chiaro che siamo portati a pensare che abbia qualcosa contro di noi. Anche se si può ancora appellarsi alla dimenticanza.

Mettere una persona in una lista ristretta invece non lascia spazio a scuse, anche se è un modo di escludere la persona tentando di non far capire che lo si sta facendo, ma alla lunga lo si intuisce dato che improvvisamente non vediamo più nuovi post di tale persona. Si tratta di un attacco molto più diretto, anche se tende a mettersi sulla linea di confine tra l’esplicito e l’implicito. Questa volta è come lanciare il sasso e nascondere la mano, ma in modo negativo. Si tratta di un modo escludere sperando che non vi siano reazioni dall’altra parte. Probabilmente chi lo fa, spera o ha la certezza che non rivedrà tale persona, altrimenti dovrebbe far fronte al suo atto di codardia.

Arriviamo ora a gesti più palesi come il togliere l’amicizia. È ovviamente un gesto drastico che si fa notare, e viene fatto volontariamente poiché non si tratta di un gesto di indifferenza. La persona deve andare a cercare il nome e toglierlo dalla propria cerchia, manifestando quindi un’intenzione precisa. Su Facebook non si paga di certo un abbonamento per ogni amico presente, quindi a meno che la persona non sia fastidiosa, eliminarlo significa fare volontariamente un gesto negativo che porta alla domanda: “Perché proprio ora?”. E se era stata l’altra persona ad aggiungerci ci viene palese chiederci: “Perché mai mi hai chiesto l’amicizia allora?”. Anche se questo gesto è più esplicito, non lo si nota subito, ma sicuramente prima del precedente. Se si hanno molti amici per un po’ la cosa può passare inosservata, ma quando ci verrà in mente quella persona e la andremo a cercare scopriremo la verità.

Fra le azioni più drastiche sui social però, vi è ovviamente il blocco della persona. Chi blocca va oltre l’eliminazione: è quasi una sublimazione di un’eliminazione fisica nel corrispettivo virtuale. Non vi sono possibilità, è un atto estremamente aggressivo poiché si impedisce all’altra persona di parlare e di avere una seconda possibilità. Rimaniamo chiusi nel nostro mondo mentre la persona che ci ha bloccati ne rimane fuori. E quando ci verrà in mente di cercare quella persona, non potremo più neanche trovarla, rimanendo col dubbio che si sia tolta da Facebook.

In definitiva, i social ci hanno portato ad nuove forme di comunicazione, permettendo di metterci in contatto con i metodi più disparati dandoci l’impressione di essere vicini anche se lontanissimi. Dall’altro lato hanno anche agevolato forme di comunicazione indirette, agevolando incomprensioni, ma facendo anche emergere dei pensieri subconsci che danno comunque maggiori indizi sulle persone con la quale comunichiamo e che quindi probabilmente già c’erano. Queste guerra virtuali possono far male a chi le subisce, soprattutto quando si viene esclusi dal sapere le cose degli altri, ma bisogna ricordarsi che la realtà si affronta là fuori.